Sant’Elia Nuovo può essere la
denominazione dell’attuale paese a pie’ del Colle Obaco, per
distinguerlo storicamente da Sant’Elia Vecchio formato dalla omonima
chiesa e sue pertinenze, distrutto dai Saraceni nell’867 dell’età
cristiana. Al territorio santeliano gli Abati di Montecassino avevano
ben presto rivolto le loro mire e le loro cure interessate, data la
fertilità del suolo, in quella proficua fase di riorganizzazione e di
espansione della Terra Sancti Benedicti iniziata da papa Gregorio 11
che, nel 717, dopo le invasioni e le distruzioni dei Longobardi, inviò
a Montecassino Petronace da Brescia per promuovere la rinascita della
celebre Abbazia. Seguì l’intenso periodo delle “donazioni” di papa
Zaccaria e di Gisulfo II, duca di Benevento. L’abate Gisulfo, della
predetta famiglia ducale, promosse opere di bonifica e di
dissodamento, per mettere a coltura le terre avute in dono. Tra le
opere da attribuire a Gisulfo, Abate tra il 796 e 1817, ricordiamo il
monastero di Sant’Angelo a Valleluce, ove si rifugiò, nel 980, Fra’
Nilo. Nell’VIII secolo fu anche costruita, dai Benedettini, una
chiesa, sulla destra del Rapido, che, con le sue pertinenze, formò il
piccolo borgo di Sant’Elia Vecchio.
Nell’anno 867, i Saraceni, dopo aver
devastato Alife, Telesia, Sepino, Boiano, Isernia, Venafro, erano
diretti alla distruzione di Atina, quando, per errore della guida,
anziché nella Valle di Comino, scesero nella Valle del Rapido, deva
standone il territorio e distruggendo la Chiesa di Sant’Elia. Il
terrore dei Saraceni durò molti anni, specialmente da quando
incominciarono le loro invasioni dal Garigliano, che comportarono la
seconda distruzione di Montecassino, con l’eccidio dei monaci e
l’uccisione dello stesso abate Bertario. Una seconda rinascita
dell’Abbazia di Montecassino e della Terra Sancti Benedicti si ebbe
con gli abati Aligerno e Mansone. Fu quest’ultimo, Abate tra il 986 e
il 996, che indusse gli abitanti della Valle del Rapido a provvedere
alla propria difesa edificando un oppidum, un centro fortificato. Il
sito più idoneo per clima e per difesa fu trovato sullo sperone tra il
Rapido e i piedi del Colle dell’Obaco. Qui fu ricostruita la chiesa di
Sant’Elia, più a monte di quella distrutta dai Saraceni; intorno alla
chiesa sorsero le mura perimetrali di difesa, torri, case, palazzi. I
primi abitanti di Sant’Elia furono beneficiari di condizioni
favorevoli offerte dagli Abati di Montecassino, che avevano interesse
acché quei terrazzani prosperassero e contribuissero alla grandezza
della Signoria di San Benedetto. I Santeliani si distinsero subito per
operosità e raggiunsero un buon livello di dignità sociale: pochi gli
schiavi, la gran maggioranza era formata da uomini liberi e da nobili,
feudatari e allodiali, di cui, nel Milleduecento, si contavano più di
cento. Tra i nobili, Marco Lanni ricorda Benedetto Tancredi, che vinse
una causa contro il Monastero di Montecassino, Francesco Contestabile,
Giovanni Tomolillo e, nel Millecinquecento, Giacomo de Margiottis,
Ascanio de Benedictis, Antonio de Michaelis.
Una colonia greca si era impiantata in
Sant’Elia, in tempo imprecisato, ma con tutta probabilità durante
l’espansione bizantina della Dinastia macedone, nella seconda metà del
X secolo. Questi Greci, forse profughi provenienti dalle Puglie,
dovettero essere di numero considerevole, se ebbero le cure spirituali
di un arciprete loro compatriota e se si costruirono una chiesa
dedicata al loro patrono questa chiesa. La cerchia muraria di
Sant’Elia passerà accanto a San Cataldo, senza inglobarne il sito.
Tuttora s’intravedono tracce della Porta Nord del pomerio medievale e
a fianco i resti della chiesa di San Cataldo, tristemente abbandonati.
La città medievale di Sant’Elia si doveva
presentare felicemente esposta e poderosamente protetta da turrite
fortificazioni. Le mura di cinta, circa mille metri di perimetro,
erano interpuntate da ben dodici torri e dovevano erigersi con filoni
di pietre calcaree squadrate, a faccia vista, di cui si vede ancora un
certo numero nei residui tratti di via delle Torri e nel lato
antistante il Rapido. Molte altre pietre sono state divelte dalle mura
di cinta e utilizzate, in età post-medievale, per altri tipi di
costruzione, come nel palazzo detto di Montecassino, presso San
Cataldo. Delle Torri, sei erano al lato Sud, tra la torre incorporata
nell’attuale casa comunale e San Cataldo; sei erano al lato Nord,
prospicienti il Rapido.
Tre le porte della città. Porta Napoli,
monumentale, grandiosa, architettonicamente importante nella
lavorazione scultorea del suo travertino, specialmente nello stemma
municipale della chiave di volta, conservato oggi ed esposto
all’ingresso del Palazzo Comunale. La Porta è alta sette metri e larga
quattro. Fu abbattuta nel 1907, per dare più spazio a Piazza Riga. Le
altre pietre che componevano la Porta, meno cinque disperse, sono
giacenti nel giardino pubblico e attendono di essere riconposte, a
memoria storica di Sant’Elia medievale. A Nord è la Porta d’Abruzzo, o
di San Cataldo, abbattuta nel 1866 per ampliare la via su cui la
stessa porta insiste e per dare più luce e aria alle case adiacenti.
La terza è la Portella, dirimpetto la Chiesa di Santa Maria La Nova.
Questa porta, di più piccole dimensioni e in posto più riservato e
nascosto, in realtà veniva chiusa solo in caso di pericolo imminente,
perché abitualmente era lasciata socchiusa, per consentire ai
terrazzani di rincasare anche ad ora più tarda del consueto,
specialmente quando ci si attardava nel lavoro dei campi.
Tornando a ripercorrere le più salienti
vicende storiche, va ricordato che Sant’Elia subì una devastazione nel
1192, da parte del castellano di Atina Ruggiero Cianzio della Foresta,
di tale ferocia che nella Cronaca dei Monaci Anonimi Cassinesi si
trova scitto: “Castellanus Atini iterum invalescit... Castrum S.
Eliae, gladio, praeda, igne dissipat et affii git”.
Solo sette anni dopo, non si era ancora
dissipata la memoria di tanto orrore, altro saccheggio e altra
devastazione Sant’Elia dovette subire, ad opera del gran Giustiziere
dell’Impero, Marqualdo, quando marciava contro Roffredo, Abate di
Montecassino, il quale disdegnava di riconoscerlo balio di Federico II
in età minorile. Dopo aver scaricato la sua ira devastando e
incendiando Cervaro, Trocchio, San Pietro Infine, San Vittore, assediò
per circa due mesi Montecassino e San Germano, che di sicuro avrebbe
preso, se non fosse intervenuto un fatto straordinario, come narra lo
storico Riccardo da San Germano: era il giorno di San Mauro e il cielo
si oscurò, facendosi tempestoso, a tal punto che Marqualdo, fortemente
impressionato, fu indotto ad allontanarsi togliendo l’assedio, sia
pure momentaneamente. Nella ritirata bruciò i castelli di Sant’Elia e
Piumarola; indi tornò all’assalto di San Germano, che distrusse con
scempi e dissacrazioni. L’abate di Montecassino riuscì ad evitare
l’assalto di Marqualdo pagandogli trecento once d’oro.
Quali erano i rapporti dei Santeliani con
Montecassino, nel Medio Evo? Quali le condizioni? E’ interessante e
significativo leggere, a questo proposito, due autori, Erasmo Gattola
e Marco Lanni. Il primo, archivista dell’Abbazia di Montecassino,
rileva, con aperta soddisfazione, come in Sant’Elia tutti i beni
appartenessero alla feudalità dell’Abbazia benedettina, sicché “S.
Eliae Oppidum Cassinatibus oninimo subditum”: la terra di Sant’Elia è
interamente soggetta ai cassinesi, cioè a Montecassino. Il secondo
autore, Marco Lanni, prete di Sant’Elia, appartenente alla nobile
famiglia dei Lanni, dimostra tutta la sua insofferenza e l’atavico
spirito santeliano ribelle alla soggezione a Montecassino, criticando
il Gattola, che aveva rilevato come i Santeliani fossero assoggettati
all’Abbazia “Corpo e anima”. “Comeché gli altri paesi della Badia lo
fossero soltanto in parte; o S. Elia fosse abitato da una mano di
schiavi più di quello, che comportasse la condizione de’ tempi!... Con
questa osservazione pare, che il detto Abate (il Gattola, n.d.a.) non
avesse potuto avere altro intendimento che quello di maggiormente
glorificare Montecassino: ma Montecassino ha tante glorie tutte sue, e
grandissime, per le quali non ha bisogno di deprimere gli altri per
esaltare se stesso”.
In realtà, i rapporti con Montecassino
erano regolati dalle mortificanti regole feudatarie, a cominciare
dalle “inquisizioni”, che gli Abati imponevano alle terre soggette.
Scrive Marco Lanni che “dall’inquisizione di Tommaso Abate del 1288
rilevasi, che gli uomini della plebe di S. Elia, imponendosi allora
ogni aggravio in derrata, pagavano al Monastero un tomolo di grano pei
terreni; altri una gallina per la casa; altri cinquanta ova; altri
alcune giornate di bovi; e gli Ecclesiastici otto paia di colombi, una
pizza di pane a Natale e quaranta ova a Pasqua... Non facciano
meraviglia tali minuzie; perché oltre ben, più ridicole si convenivano
nell’atto d’investitura di un feudo; e con pubblici istrumenti si
registravano in questi tempi: cioè, che in dato giorno si portasse un
ovo, o una rapa, o un pane sopra un carro tirato da quattro paia di
bovi, o si presentasse una semplice pagliuzza ed altre cose anche
assai più stravaganti”. In realtà tali “angherie” stavano a
significare la condizione di sudditanza, spesso di servitù e di
schiavitù, cui erano soggetti i Santeliani, come pure tutti gli altri
sudditi della Terra di San Benedetto. Ma il giusto orgoglio di Marco
Lanni, da vero santeliano, si esprime in questi termini: “Ad ogni modo
è un fatto, che le uova, le galline, le giornate di bovi e di uomini,
i lombi di maiale (Lumbellum), ed altre.. prestazioni vili, ed
avvilitive, le quali esse solo bastavano a qualificare la barbarie del
medio evo,.: e che da altri paesi della Badia si sono esatte e pagate
fino a’ tempi a noi prossimi (Lanni scrive nel 1870, n.d.a.), non si
pagarono dai Santeliani (da’ servi s’intende) da tempo immemorabile”.
A Sant’Elia si cercò con ogni mezzo di
sottrarsi alle angherie di Montecassino. Al tempo dell’abate Bernardo
Ayglerio (1263 - 1282), ad esempio, gli “angariati”, cioè quei
cittadini che dovevano pagare le “angherie” all’Abbazia, per sfuggire
a questa soggezione, combinavano matrimonio con uomini liberi e poi
chiedevano l’adozione”, con cui venivano esonerati dalle angherie
stesse. Pertanto, l’abate Bernardo, “affinché le anime loro non
andassero in perdizione, incorrendo nella censura degli scomunicati” -
dice con pungente ironia Marco Lanni -, vietò ai santeliani di
ricorrere a tali adozioni, pena la confisca dei beni.
La “pressione fiscale”, eterna croce dei
cittadini di ogni tempo e di ogni luogo, a Sant’Elia, che mal
sopportava il governo badiale, arrivò al punto di provocare una vera e
propria sommossa, nel 1271, anno in cui fu ucciso il Rettore di
Montecassino, Frate Andrea. Il Rettore era, per l’appunto, il monaco
rappresentante in loco del l’autorità badiale. La sommossa e
l’assassinio del monaco costò a Sant'Elia una severa condanna,
comminata dal Papa con sentenza del 1273 e applicata dall’abate
Bernardo Ayglerio: venti agitatori della sommossa furono banditi da
tutta la Terra di san Benedetto in perpetuo, i loro beni confiscati,
le coltivazioni divelte, le case abbattute; parimenti abbattute le
mura che cingevano la terra; si dovevano pagare da parte del Comune
duemila once d’oro; si doveva costruire un nuovo palazzo del Rettorato
entro un anno. Per intercessione di Giovanni da Casamicciola, potente
uomo di cultura presso il Re di Napoli, l’Abate attenuò la condanna,
risparmiando le case, le mura, le vigne e alleggerì il peso fiscale.
Ciononostante, i Santeliani rifiutarono, in quello stesso 1273, di
pagare un ennesimo tributo, quello del “Fodero”, dovuto per procurare
le vettovaglie ai soldati. L’Abate rispose con l’ingiunzione a pagare
entro venti giorni. A nulla valse il ricorso al Papa e al Re, perché
si dovettero versare, per quei tributi evasi, ben duecento once d’oro.
Tra il 1348 e il 1349, Sant’Elia subì due
calamità: una epidemia di peste e un terremoto. La peste arrivò
dall’Egitto e dalla Siria, dilagando in Italia e nell’intera Europa,
meritando l’epiteto di “Morte nera”. A settembre del 1349 un terremoto
catastrofico devastò tutta la Terra di San Benedetto. Sant’Elia uscì
da queste sventure distrutta nei beni e decimata nella popolazione:
tra i nobili cavalieri non restarono che venticinque famiglie.
Nel 1379 Sant’Elia fu coinvolto nella
sommossa di San Germano, allorché Loffredo, messosi a capo dei
rivoltosi, occupò molte terre e castelli di Montecassino.
Tra la fine del Milletrecento e la prima
metà del Millequattrocento, Sant’Elia subì i danni procurati dalle
vicissitudini del Regno di Napoli sotto gli ultimi re Angioini.
Infausti furono i regni di Giovanna I (1348 - 1381), Carlo III (1381
-1386), Ladislao (1386 - 1414), Giovanna II(1414 - 1435), in cui
aumentò il potere baronale, aumentarono le angherie, gli abusi del
potere, la disamministrazione, la decadenza economica e sociale.
Sant’Elia subì saccheggi e devastazioni, in quanto zona di passaggio
degli eserciti ora di questo ora di quel barone o re o capitano di
ventura. Una pausa di risanamento generale fu goduta con l’avvento
degli Aragonesi. Ma anche con essi, verso la fine del secolo,
Sant’Elia e tutta la Terra di San Benedetto furono desolate da
molestie e turbamenti militari, causati dalla congiura di alcuni
baroni a favore del duca Giovanni contro Ferdinando I, detto anche
Ferrante, figlio illegittimo di Alfonso V d’Aragona.
Il 1503 è ricordato per la Battaglia del
Garigliano, con cui il capitano Gonzalo Fernandez de Cordoba
riportava, per Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, la vittoria su
Luigi XII, re di Francia. Inizia il dominio spagnolo sul Regno di
Napoli, che durerà, salvo la breve interruzione del periodo
napoleonico, fino alla conquista di Garibaldi e all’annessione al
Regno d’Italia nel 1860. Sant’Elia e tutti gli altri paesi del
Mezzogiorno divennero preda del malgoverno spagnolo, delle sue
depredazioni, dei dazi, gabelle, tributi vari, con conseguenze di
grande impoverimento. S'aggiunga la pestilenza del 1656, che si ebbe a
Napoli e si estese in tutto il Regno. Il malgoverno spagnolo favorì il
brigantaggio meridionale, sia nel 1799, con la rivolta di Masaniello,
sia negli anni dell’Unità d’Italia, quando fu sfruttato dalle stesse
forze reazionarie borboniche.
I rapporti tra Sant’Elia e Montecassino si
normalizzarono, dal Millecinquecento e fino al governo francese dei
napoleonici Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, anche in ragione
del potere baronale dell’Abbazia, che andava progressivamente
diminuendo, fino a scomparire con le Leggi eversive del 1806. |