VALLELUCE TRA LUCIO
VITELLIO E SAN NILO
Valleluce, ai piedi di Monte Cifalco, è
uno dei luoghi più importanti di Sant’Elia, per amenità del posto, per
esposizione paesaggistica, per storia, per tradizione.
L’ACQUEDOTTO ROMANO di Valleluce è
da annoverare tra le opere più interessanti e singolari della locale
storia dell’architettura e dell’ingegneria idraulica.
Fu intorno agli anni tra il 43 e il 48
dopo Cristo che Lucio Vitellio, soprintendente alle opere pubbliche
dell’imperatore Claudio, ad utilità del popolo di Casinum, costruì
l’Acquedotto di Valleluce. Casinum non era sprovvisto d’acqua, anzi ne
aveva abbondantemente, ma non era a sufficiente altezza da soddisfare
le esigenze della città, tenuto conto che non esistevano allora
tecniche idrauliche di sollevamento. Erano quindi soprattutto le acque
di Valleluce, con la loro limpidezza, con la loro leggerezza, ad
essere appetite.
Non si tratta del solito acquedotto
romano, ad archi, che si eleva monumentale nelle campagne presso le
città. Si tratta di un cunicolo, lungo circa 22 chilometri, che si
snoda a volte interrato, a volte nella roccia forata, a volte su brevi
ponti. L’utilità dell’opera consisteva nella possibilità di addurre
l’acqua a Casinum conservando la limpidezza, leggerezza, freschezza e
igienicità d’origine. Oltretutto, la conduttura era ben mimetizzata e
protetta da nemici o malintenzionati che potessero interrompere o
inquinare il flusso idrico.
La sorgente è a Lucinuso, in località
Bagnaturo, a circa due chilometri a Sud dell’altra eccezionale
sorgente di Vaccarecce, detta anche Acqua Bianca, per connotarne la
particolare qualità. Il punto di partenza è a metri 320 di altitudine;
il punto di arrivo, nelle vasche-serbatoi presso Rocca Janula, è a 178
metri di altitudine. Il dislivello è, quindi, di 142 metri, il che dà
una pendenza opportuna per una giusta velocità dell’acqua. La portata
era di circa 150-200 litri d'acqua al secondo. Lungo il percorso sono
interposti pozzetti di esplorazione e di decantazione. L'opera è
realizzata in materiale particolarmente resistente, al punto che
ancora oggi, a quasi duemila anni di distanza, può reggere il
confronto con il miglior moderno cemento’. Si tratta di prevalente
opus incertum, intonaco di cocciopesto, impermeabilizzazione in
opus signinum, miscela di sabbia sottile e calce.
E’ doveroso elogiare riconoscenti lo
studioso Sabatino Di Cicco da Valleluce per l’appassionato studio
sull’Acquedotto Romano, di cui ha esplorato l’intero percorso e
descritto minuziosamente l’intera opera, nel suo volume L'Acquedotto
Romano da Valleluce a Cassino.
SAN NILO, intorno all’800 dopo
Cristo, sfuggiva i Saraceni che devastavano il suo paese, Rossano
Calabro, e riparava presso il Monastero di San Michele Arcangelo a
Valleluce. Questo Monastero, costruito dall’abate Gisolfo, nel 796-
798, dopo che accolse Fra’ Nilo e i suoi sessanta monaci, divenne
subito famoso, popolato, centro di cultura e di attività, tra la vita
cenobica e anacoreta che continuò anche dopo che Fra’ Nilo fondò a
Grottaferrata la celebre Abbazia basiliana. Per quindici anni Fra’
Nilo operò nel Convento di Valleluce, conquistando l’ammirazione, il
rispetto e la fede di quanti lo conoscevano, ricchi e poveri, potenti
e miseri, colti e ignoranti, e compiendo opere fin anche miracolose.
Si narra della sua severità nei confronti di una Diaconessa e della
principessa Aloara di Capua, contro cui lanciò un pesante anatema.
All’abate Mansone Fra’ Nilo predisse la sua orrenda fine: quella di
essere accecato da alcuni sicari. L’imperatore Ottone III e papa
Gregorio V lo stimarono tanto da baciargli la mano. Quando
l’Imperatore, tornando dal Gargano, passò a far visita a Fra’ Nilo e
gli chiese cosa desiderasse, il futuro santo gli rispose: “Salva la
tua anima”: Quando la sua fama aveva fatto arricchire il
Convento, ne fu contrariato e si rifugiò in luogo solitario a Serpieri,
presso Gaeta. Quando, poi, anziano, e stanco, si sentiva prossimo alla
morte, per evitare onori funebri si ritirò presso Tuscolo, nel
monastero di Sant’Agata dei Greci. Qui il conte di Tuscolo,
conquistato da tanta santità, gli offrì quanto voleva dei suoi averi.
Fra’ Nilo accettò solo un avanzo della Villa di Cicerone denominata
Grotta Ferrata ove fondò il Convento e la città omonima.
A Valleluce si recò Sant’Adalberto Vescovo
di Praga, per inginocchiarsi ai piedi di San Nilo. Ivi si ritirò San
Pietro Abate, e nello stesso luogo l’imperatore Federico II fece
riparare i monaci di Montecassino, quando li scacciò per fare
dell’Abbazia Benedettina una fortezza militare.
Ivi riparò anche il giovane Tommaso
d’Aquino, che si trovava studente a Montecassino, per poi recarsi a
Napoli.
IL MONUMENTO A VINCENZO POMELLA è
ancora da ideare e realizzare, ma, appena ci sarà, a Sant’Elia,
canterà il coraggio dell’avventura, lo spirito della scoperta e
dell’esplorazione, l’ardimento del vivere.
Vincenzo Pomella fece parte, in qualità di
meccanico e motorista, dell’equipaggio di Umberto Nobile a bordo del
dirigibile Norge, prima e Italia, dopo, nella spedizione al Polo Nord
ideata da Roald Engelbert Amudsen.
La prima spedizione avvenne nel 1926, tra
aprile e maggio: fu un grande successo e un gran de trionfo.
La seconda spedizione, nel 1928, fu
fatale. Il dirigibile Italia partì da Milano il 14 aprile 1928 e si
diresse verso il Baltico in pessime condizioni metereologiche, subendo
guasti ai motori. Dopo alcune esplorazioni nelle zone artiche,
l’Italia riprese la via per il Polo, che fu raggiunto, ma l’equipaggio
non poté scendere per l’esplorazione, a causa di una tempesta di
vento, nebbia e neve. Il 25 maggio iniziò la tragedia: il dirigibile
non più governabile si abbassò e urtò contro il ghiaccio,
scaraventando a terra dieci uomini, tra cui Pomella, che rimase
ucciso; gli altri sei scomparvero per sempre nel cielo con l’aeronave.
I superstiti si rifugiarono nella “tenda rossa” e successivamente
furono salvati con vari interventi in cui perì, in un disastro aereo,
lo stesso Amudsen.
ANGELO SANTILLI LETTERATO E MARTIRE
RISORGIMENTALE nacque a Sant'Elia, il 28 ottobre 1822. Seguì gli
studi di retorica e filosofia con Francesco Murro. Si laureò, a
ventanni, in Giurisprudenza e Filosofia presso l'Università di Napoli,
dove poi fu docente. In filosofia, fu allievo di Pasquale Galluppi e
condiscepolo, tra gli altri, di Francesco De Sanctis, Luigi
Settembrini, Silvio Spaventa. Ebbe una proficua corrispondenza
culturale con il filosofo Cousin, per cui si accostò al socialismo
pre-scientifico di Saint-Simon e di Proudhon. In politica, seguì il
federalismo neoguelfo di Vincenzo Gioberti. Fu protagonista dei moti
antiborbonici del 48, a Napoli, per cui fu ucciso dai soldati svizzeri
venuti in aiuto di Ferdinando Il, la notte del 15 maggio 1948, assieme
al fratello Vincenzo e al concittadino Filippo Picano. Fu apprezzato
studioso e scrittore di filosofia, sociologia, politica. Tra le molte
opere, del Santilli, nonostante sia morto a soli 26 anni, ricordiamo
Le idee soggettive, Principi dell'umanità razionale, L’Arte e l’Amore,
L'individuo e la società, Il socialismo in economia. |