La gloria più grande di Rocca d’Arce sta nella
memoria storica del suo Castello, di cui, pertanto, varrebbe ben la pena di
salvare anche il più piccolo brandello di mura, anche la più labile vestigia.
Peccato che sulla civiltà della storia prevalga, oggi, la civiltà delle
comunicazioni, con le sue antenne televisive e telefoniche, quasi metalliche
ortiche a ricoprire gli ultimi segnali di un castello grandemente importante per
tutto il Medio Evo!
Importante perché era praticamente imprendibile, il
Castello di Rocca d’Arce, importante perché era geograficamente posto in una
posizione “chiave” nei conflitti incessanti tra l’Impero Bizantino, i Normanni,
il Sacro Romano Impero, il Papato, i Guelfi e i Ghibellini, oltre che tra i vari
castellani, i signori, i duchi, i conti e gli abati dell’Italia Centrale. In
verità questo castello dominava l’ampia valle del Liri e del Sacco, chiamato
quest’ultimo fiume Tolero nel Medio Evo e Trerus ai tempi dei romani, valle che
costituiva il passaggio più importante tra il Nord e il Sud della Penisola.
Il Castello di Rocca d’Arce era imprendibile perché
in parte inacessibile per la natura del sito, in parte munito di poderose
fortificazioni. In tutto il lato Nord il Castello soprastava uno strapiombo di
un paio di centinaia di metri, una rupe calcarea dalle pareti lisce e a
perpendicolo. Ad Est lo strapiombo era collegato ad una serie di faraglioni per
mezzo di apposita muraglia. A Sud e a Ovest l’ascesa al Castello era impedita da
un complesso molto vasto ed articolato di fortificazioni.
In alto si ergeva la
mole centrale, attorniata da bastioni e torrazzi. La sua protezione era
assicurata, inoltre, da più ordini di mura, almeno tre ordini, ma forse anche
sette. Avamposti del Castello erano già ad Arce, a Campolato e a Colle San
Martino. Un ordine di mura era lungo l’attuale Murata, le “Muratte”, che
partivano da Santa Maria dello Stingone (Sant’Agostino o Sant’Antonio),
risalivano fino al “Torrione” (punta Sud del Centro storico di Rocca d’Arce) da
una parte, e dall’altra andavano fin verso il centro di Arce, da cui
proseguivano verso l’attuale serbatoio dell’acquedotto sopra Santa Maria. Qui si
vedono ancora dei resti. In questo modo le mura chiudevano ad U il Castello, in
una morsa fortemente protettiva. Arce aveva altri posti strategici per la difesa
del Castello di Rocca d’Arce: porta Germani, porta Carosi, il piccolo castello
dove oggi sorge il Comune, porta Santa Maria. Altre mura cerchiavano il
Castello, nel centro di Rocca d’Arce e lungo la linea delle primitive mura
ciclopiche. Raramente si è vista una sì potente opera di fortificazione. Ed
infatti il Castello di Rocca d’Arce ha resistito agli attacchi più formidabili e
mai è stato preso per assalto, ma piuttosto per tradimento o per resa. Uno dei
problemi più gravi poteva essere l’assedio, che impediva il rifornimento dei
viveri e dell’acqua. Quando l’assedio non era totale, ma lasciava scoperto il
territorio verso la campagna a Oriente, ingegnosi sottopassaggi potevano
permettere la comunicazione ed il rifornimento idrico alla “Fontana a Monte” e
alla “Fontana a Balle”, oltre il rifornimento alimentare nella sottostante zona
che chiamiamo “Peschito”. La “Grotta del Diavolo” poteva essere uno di questi
passaggi segreti.
Il Castello di Rocca d’Arce non fu una sontuosa
comoda residenza, tipica del castello baronale, ma soprattutto un presidio
militare, una roccaforte, che serviva alle operazioni belliche, allo
stazionamento dei militari, al rifugio e alla sicurezza entro le sue mura di chi
altrove si sentiva in pericolo. Basti pensare che re Manfredi, alla vigilia
dello scontro fatale contro Carlo D’Angiò, dovendo sciegliere un riparo sicuro
per la moglie Elena e per i quattro figli in tenerissima età, individuò due
castelli tra i più sicuri: Rocca d’Arce e Lucera. Scelse poi Lucera perché non
vedeva in Rocca d’Arce una possibilità di eventuale fuga verso oriente. E aveva
previsto bene Manfredi, perché Carlo D’Angiò, con i suoi Galli, i Francesi,
riuscì a prendere il Castello di Rocca d’Arce, per resa di Federico Lancia, che
pure aveva valorosamente combattuto.
Per la sua sicurezza il Castello di Rocca d’Arce era
il più munito della provincia di Terra di Lavoro, compresa la stessa Napoli. In
tempo di pace aveva assegnati quaranta serventi ed un castellano scudifero. Poi
c’era Castel dell’Ovo di Napoli con trenta serventi e un castellano milite. Il
castello d’Aversa aveva venti serventi; tutti gli altri non ne avevano più di
dieci. Ciò si spiega dal fatto che il Castello di Rocca d’Arce si trovava in
zona di confine, vera “chiave del Regno”.
Tra il 1155 e il 1162, il Castello di Rocca d’Arce
fu rifugio di quei baroni che si erano ribellati al regime normanno di Sicilia,
fino a quando il re Guglielmo I, detto il Malo, venne a catturarli facendo
espugnare il Castello dal conte Lauro.
Enrico VI, imperatore del Sacro Romano Impero e, tra
il 1195 e il 1197, re di Sicilia, era diretto alla conquista del Regno siculo,
quando prese in ostaggio i più ragguardevoli cittadini di San Germano (Cassino),
Castrocielo, Atina e li consegnò alla custodia in parte del castellano di Rocca
Sorella (castello di Sora), Corrado Merlei, e in parte al castellano di Rocca
d’Arce, Diopoldo.
Ultima dimostrazione del valore strategico e della
garanzia di sicurezza del nostro Castello la rileviamo nel 1528, quando Carlo,
re di Spagna e re di Napoli, giudicò i castelli di Rocca d’Arce e di
Roccaguglielma (Esperia) inespugnabili e insostituibili per la sicurezza del
Regno, tal che ordinò che questi castelli non potessero mai essere sottratti al
dominio regio. Quindi nominò capitano al comando delle truppe, che qui erano di
stanza, Bartolomeo Alarcon, il quale morì in Rocca d’Arce nel 1533 e fu sepolto
nella chiesa di Sant’Agostino.
Dicevamo che poche volte il Castello di Rocca d’Arce
fu preso, e quando ciò avvenne fu più per tradimento o per viltà o per miglior
consiglio, che per assalto e per combattimento.
Ruggero I, re normanno di Sicilia, nella seconda
metà dell’Undicesimo secolo, per ben due volte assalì il nostro Castello,
conquistandolo, consapevole che, per mantenere un regno al Sud dell’Italia,
bisognava possedere quell’importante fortezza sul monte Arcano, posta a
“guardia” della Valle del Liri, ingresso obbligato per il Mezzogiorno. Non
sappiamo, perché le fonti storiche a disposizione difettano, come e con quali
mezzi il Castello di Rocca d’Arce fu conquistato da Ruggero I. Si consideri,
peraltro, che siamo poco oltre il Mille, solo agli albori della storica
importanza di questa fortezza militare medievale, contemporaneamente alla
nascita del Regno Normanno di Sicilia, con i signori d’Altavilla Roberto il
Guiscardo e con il fratello Ruggero, che, in trenta anni di guerra, dal 1061 al
1091, conquistava la Sicilia, preparando così il Regno e l’espansione dei
Normanni nel Mezzogiorno della Penisola.
Alla morte di Ruggero gli successe nel Regno di
Sicilia il figlio Ferdinando, dando luogo ad una fase incerta di passaggio che
permise ai baroni ribelli, che erano stati esiliati dal Regno, di rientrare e di
riprendere le proprie baronie. Tra questi baroni c’era Mario Borrello, che prese
e incendiò Arce e poi passò all’assalto del Castello di Rocca d’Arce. Ormai il
Castello è abbastanza munito e meglio può resistere. Gli assalti succedono agli
assalti, fino a quando, il 21 agosto del 1155, il famigerato Mario Borrello
sfonda la resistenza, penetra nel Castello, lo saccheggia e lo incendia. La
conquista del Castello non fu per niente facile e richiese lungo tempo di
cruenti combattimenti, nonostante che era stata già presa e incendiata Arce,
venendo così meno i primi sbarramenti di difesa di Rocca d'Arce.
Nel 1191, l’imperatore Enrico VI scese in Italia,
per riprendere il Regno, poiché un moto indipendentista siciliano favoriva la
sovranità di Tancredi, conte di Lecce. Dopo aver ricevuto l’incoronazione dal
papa Celestino III, l’imperatore, insieme alla moglie, Costanza d’Altavilla,
diretto verso Napoli, scende per la valle del Sacco ed occupa Terra del Lavoro.
Passa per Ceprano e si dirige ad occupare Arce, presupposto per la conquista del
Castello di Rocca d’Arce, difeso, per conto di Tancredi, da Matteo Borrello.
Questi scende subito ad Arce, per resistere già dalle prime avamposte difese del
Castello. Ma Arce cede all’attacco dell’imperatore, si arrende senza nemmeno
combattere, impaurita dal numeroso esercito imperiale. Rocca d’Arce, invece,
resiste con fierezza e impegna tutta la capacità bellica dell’esercito di Enrico
VI, fino alla dura inevitabile resa. “Imperator - narra l’Anonimo Cassinese -
Campaniam descendens... Roccam Arcis violenti ‘capit insultu” (L’imperatore,
dirigendosi verso la Campania, prese Rocca d’Arce con feroce assalto).
La resa di Rocca d’Arce suscitò grande
scoraggiamento, tra gli alleati di Tancredi, tal che cessò ogni resistenza
contro l’Imperatore. San Germano, cioè Cassino, impressionata dalla resa di
Rocca d’Arce, si piegò al destino e giurò fedeltà ad Enrico VI. Pietro da Eboli,
poeta di quei tempi, così narra l’avvenimento in un suo Carme: “Quando capta est
per vim Rocca d’Archis, / Subito imperio Notani gloria castris, /quo Dux a
misero Rege Burrellus erat. /Exemplum cuius quamplurima castra. seguuntur, /
Archis enim Princeps ‘nomen et esse gerit”(Quando con la forza fu presa Rocca
d’Arce, si sottomise all’impero la gloria del Castello, in cui Borrello era
comandante per parte del povero Re. Seguirono il suo esempio la maggior parte
dei castelli, sicché il Principe porta il nome e le sostanze della Rocca).
Avuta, così, la “chiave”, Enrico VI poté continuare la conquista, occupando la
Valle di Comino, Teano, Capua, Salerno, dopo aver pensato a ricostruire le
difese del conquistato Castello di Rocca d’Arce, ponendovi come castellano
Diopoldo. La marcia, conquistatrice di Enrico VI fu arrestata a Napoli da una
epidemia: l’imperatore, ammalato, fu costretto a tornarsene in Germania. Ne
approfittò Tancredi per riconquistare terre e città di Terra di Lavoro.
Innocenzo III, papa tra il.1198 e il 1216, si
impegnò a domare la insolenza di tre ribaldi signori, Diopoldo di Rocca d'Arce,
Corrado Merlei di Sora e Marqualdo di Ravenna, i quali in pratica, con le loro
scorrerie, dominavano molte terre del Mezzogiorno. Il Papa, per questa impresa,
chiamò dalla Francia il conte di Brenna, Gualtiero, che riuscì a conquistare
Aquino, scacciandovi il castellano che vi era stato posto da Diopoldo. Indi,
Gualtiero insegue Diopoldo, lo incontra presso Capua, dove lo sconfigge in una
acerrima battaglia. Rocca d’Arce, nel frattempo, era stata affidata da Diopoldo
al conte di Sora, Corrado Merlei. Contro costui Innocenzo III invia il suo
Camerlengo Stefano di Fossanova, con un formidabile esercito, il quale
vittoriosamente occupa Sora e Sorella, la rocca di Sora, facendo prigioniero
Corrado Merlei. Quindi, Stefano di Fossanova procede alla conquista di Rocca
d’Arce, dove era castellano Ugo, ma, scoraggiato dalle fortificazioni del
Castello, preferì trattare la resa. Ugo pretese pesanti condizioni: trecento
cavalli, mille once d’oro, la libertà per Corrado Merlei e compagni che erano
tenuti prigionieri.
Nel 1210, l’imperatore Ottone IV scende in Italia e
cerca di riprendere il Castello di Rocca d’Arce, che era passato in possesso del
Papa. Giova ricordare che in questo periodo Innocenzo III era tutore del
minorenne re Federico Il. Il tentativo di occupare Rocca d’Arce fallì. Allora
l’imperatore incaricò l’antico castellano di Rocca d’Arce, Diopoldo, di
riconquistare Aquino e Rocca d’Arce. Ma Diopoldo non riuscì a prendere Aquino e
tanto meno Rocca d’Arce, di cui conosceva bene le potenti fortificazioni.
Nel 1229, il nostro Castello fu attaccato dal grande
esercito approntato dal papa Gregorio IX per la conquista della Sicilia. I
soldati papalini portavano la divisa militare fregiata delle chiavi di San
Pietro, per cui furono chiamati Chiavisignati. L’esercito prese i castelli di
Ponte Solarato, cioè di Isoletta di Arce, di San Giovanni Incarico e di Pastena.
Poi passò all’assalto di Rocca d’Arce, dove era castellano Raone di Azio. Questi
predispose una difesa ferratissima e resistette arditamente fino a che
l’esercito dei Chiavisignati dovette togliere l’assedio e ritirarsi sconfitto
nel quartiere generale di Ceprano.
Nel 1250, registriamo altra strenua resistenza del Castello
di Rocca d’Arce contro l’assalto di Corrado IV, il quale era sceso in Italia per
riconquistare il Regno. Risalendo dalle Puglie, Corrado IV pose il suo
accampamento nella campagna di Arce, nella zona che attualmente si chiama Campostefano, e provò a prendere il Castello di Rocca
d’Arce, senza riuscire nell’impresa: era castellano il valoroso Bertoldo.
Altra resistenza aspra e vincente Rocca d’Arce la oppose al
papa Alessandro IV, che era intento a recuperare molte terre oltre il confine
del Liri. Rocca d’Arce e Sora non cedettero.
A papa Alessandro IV succedette Urbano IV, il quale,
continuando l’opera del predecessore, chiamò in aiuto il francese conte Roberto
di Fiandra: Quando costui giunse ai piedi del Castello di Rocca
d’Arce, spaventato dalle imponenti fotificazioni, se ne tornò da dove era venuto.
Sfortunatamente per Rocca d’Arce, funestamente per re
Manfredi, salì sul soglio pontificio Clemente IV, il quale dalla Francia fa
venire in Italia Carlo I D’Angiò. Carlo D’Angiò e Manfredi si contendono il
Regno di Napoli. La difesa che Manfredi appronta nel Mezzogiorno ha il suo fulcro nel Castello di Rocca d’Arce. Il re pone l’accampamento in Arce, in quella
località che ancora oggi si chiama “Campo Manfredi”. Contemporaneamente pensa
alla difesa marina, ponendo una flotta di sbarramento con navi siciliane,
napoletane e pisane. Carlo D’Angiò riesce a sfuggire alla flotta ed entra in
Roma, festante, dove è incoronato re di Napoli e di Sicilia. Quindi si dirige ad
occupare tutti i castelli ai confini con lo stato pontificio, tra cui Rocca
d’Arce, che più di ogni altro ha il coraggio e l’orgoglio di resistere. Ciò fu
anche segno di amor di patria e di fedeltà, poiché re Manfredi si poteva
ritenere più italiano che straniero, nato in Italia e da madre italiana, Bianca
Lancia, mentre Carlo D’Angiò era in tutto e per tutto uno straniero, considerato
un usurpatore nei confronti dello svevo Manfredi e del Mezzogiorno d’Italia. La
difesa di Rocca d’Arce era affidata al valorosissimo Federico Lancia, affiancato
da Rinaldo d’Aquino e da Guglielmo Lancia, fratello di Federico, che difendevano
il confine lungo il fiume Liri. Purtroppo, la prima falla nella difesa contro
Carlo D’Angiò si aprì con il tradimento di Rinaldo d’Aquino, che, oltretutto,
era cognato di Manfredi. Pertanto, a Carlo fu facile spezzare la resistenza
lungo il Liri, a cui seguì l’assalto al Castello di Rocca d’Arce. Leggiamo dalle
Cronache:” venit (Carolus) pro pere ad quoddam inespugnabile castrum, quod
aliquid con trari videtur, haberi cum Rocca Arcis appelletur a vulgo: hac enim
Rocca vixfortior potest inveniri quam rupes monstruosae circumdant: et quasi de
medio petrarum confixam, saxosa amntium paerupta convallant. Hanc Gallici pedites, qui quasi leve quid essent,
niiraculose consedunt”. Un’approssimata traduzione è la seguente: Carlo giunse
rapidamente presso un inespugnabile castello, che appariva come qualcosa di
respingente e dal volgo era chiamato Rocca di Arce: non si può trovare infatti
una rocca più fortificata di questa, circondata da mostruose rupi; e, quasi
conficcata nel mezzo di faraglioni, la proteggono sassosi precipizi. I fanti
francesi più agili di quanto non fossero, conquistarono miracolosamente questa
Rocca.
La presa del Castello di Rocca d'Arce fu ritenuta, dai
fautori guelfi, sostenitori del papa, più opera della volontà di Dio, che dei
Francesi. Si immaginò che i soldati di Carlo D’Angiò avessero messo le ali per
superare quelle incredibili difese. Sta di fatto che i difensori del Castello
furono impressionati dal numero degli assalitori e dalla loro audacia, tanto che
Federico Lancia non ebbe altra scelta, oltre la disperazione e la resa. Ormai a
Carlo D’Angiò è aperta la porta del Regno.
Dal 1266, con la sconfitta e la morte di Manfredi, finisce la
fase epica del Castello di Rocca d’Arce, che passerà da un signore all’altro e
andrà scemando la sua importanza militare. Il suo possesso sarà dei Gianvilla,
dei Cantelmo, della Regina Giovanna, di Caterina d’Aragona, dei signori Della
Rovere, infine dei Boncompagni.
I Boncompagni entrarono in possesso del Castello di Rocca
d’Arce sin dal 1583, con Giacomo Boncompagni, duca di Sora. Questi signori
furono particolarmente devoti a San Bernardo. Nel 1698 Antonio Boncompagni donò
a Rocca d'Arce la cassa di piombo in cui conservare il corpo del Santo
Pellegrino.
Il massimo grado di sicurezza e di splendore il Castello di
Rocca d’Arce lo aveva raggiunto con Diopoldo, fatto castellano dall’imperatore
Enrico IV.
Figura tra il bandito e il principe, valoroso condottiero e avido opportunista,
Diopoldo riuscì a crearsi uno stato nel Regno, rivestendo perfino un ruolo di
difensore della legalità. Difese la legittima successione al trono imperiale di
Federico TI, ancora in età minorile. Si distinse per valore nelle battaglie di
Aquino e di Capua, contro gli alleati di Tancredi, facendo anche prigioniero
Riccardo da Carinola, che rinchiuse nel Castello di Rocca d’Arce. Da qui
Diopoldo faceva leggi, emanava decreti, amministrava la giustizia, in quel suo
stato improvvisato che arrivava fino a Fondi e ad Acerra, presso Napoli. In
quegli anni di disordini, di lotte per l’investitura imperiale, non essendo
Federico II ancora giunto alla maggiore età ed essendo suo tutore papa
Innocenzo III, tutto sommato, Diopoldo svolse una funzione vicaria dei legittimi
poteri nell’ordine sociale, contro le ribalderie di furfanti, ladroni e briganti
che infestavano il Mezzogiorno.
|