Si tratta di due chiese medievali che ebbero una
loro importanza, tanto che adiacenti ad esse sorsero due piccoli conventi
benedettini. Ambedue le chiese sorsero sui resti di antiche costruzioni romane,
la Villa di Giovenale a Campea e forse un santuario pagano a San Vito.
Della chiesa di San Pietro a Campea, oggi, restano
poche mura in piedi e il pavimento ricoperto di macerie. Un ciuffo di edera
cerca di rendere meno macabro lo spettacolo di distruzione bellica e di incuria
civica. La posizione topogeografica è meravigliosa, su balze erbose spalleggiate
dal verde intenso di una vasta zona boscosa, ad altitudine collinare dominante
la piana di Roccasecca e di Aquino e l’intera Media Valle del Liri. Ben si
adattavano, su questa posizione, una villa romana, un tempio cristiano e un
convento benedettino.
La villa romana di Giunio Decimo Giovenale sorgeva
lungo quella fascia pedemontana, a monte della via Latina, in cui molti patrizi
romani amavano risiedere per godere i propri hotia, come Quinto Cicerone
ad Arcanuin, cioè Arce, e la gens equitia ad Euchelia, cioè
a Palazzolo di Castrocielo. Nel Settecento, sul posto della villa, venne
ritrovata una iscrizione di Giovenale, che ce ne garantisce l’esistenza e
l’ubicazione. Oggi si notano pochi resti di mura di contenimento. Qui era il
regno di Cerere e Diana per Giovenale. In realtà era posto molto favorevole per
l’agricoltura, protetta dalla dea Cerere, e, per la caccia, protetta da Diana. E
così è rimasto, per sempre fino a noi, quel luogo in cui prosperano il frumento,
l’ulivo e la vite e in cui abbonda la selvaggina. I cacciatori ci vanno ancora
per tordi, beccacce, cinghiali e lepri. La villa di Giovenale a Campea si fa
risalire al I secolo dopo Cristo. L'epigrafe è riportata dal Mommsen, nel
suo Corpus inscriptionum latinarum. Nella prima parte
dell’epigrafe, andata perduta, si poteva leggere: Cereri sacrum D. Iunius
luvenalis trib. coh. Delmatarum lI quinq. Flamen Divi Vespasiani vovit
dedicavitque sua pec. E cioè: Decimo Giunio Giovenale, tribuno della coorte
dalmata, duonviro quinquenrìale, sacerdote del divino Vespasiano, consacrò e
dedicò questo luogo sacro a Cerere, a proprie spese.
Del convento di San Pietro si parla nelle
Rationes decimarum Italiae. La data di costruzione può essere collocata
nell’anno mille. Nel secolo XIV il convento si trova menzionato per i tributi
che doveva all’Abbazia di Montecassino e per implicazioni di donazioni e vendita
da parte di Giovanni de Apia da Castro Cielo e di Suor Gemma badessa del
convento di Santa Maria a Palazzolo. Il convento fu soppresso da papa Clemente
VIII nel 1605. Migliore sorte è toccata all’annessa chiesa, in cui la gente del
posto è andata a messa fino alla seconda guerra mondiale, che causò il crollo
del tetto.
La Chiesa di San Pietro a Campea era impreziosita da
affreschi, di cui si conservano tratti nella Chiesa di San Tommaso a Castello.
Tra le pitture salvate possiamo ammirare la figura di San Pietro con aureola e
chiavi, San Michele Arcangelo con la bilancia su cui è posta un’anima da
sottoporre a giudizio, altri santi e devoti donatori, un San Giovanni Battista e
un Cristo. Le pitture rivelano nell’autore un artista abbastanza raffinato e
colto, in qualche modo influenzato dall’arte bizantina. Vanno riportate al
periodo della cultura benedettina che fiorì sotto l’abate Desiderio, nella
seconda metà dell’XI secolo.
La Chiesa di san Vito sul Melfa si trova nella
campagna di Roccasecca, lì dove oggi l’Autostrada del Sole attraversa il Melfa
su gran di piloni di cemento e dove c’era un ponte romano, di cui si possono
osservare i resti ancora oggi. Sul sito forse c’era un tempio pagano, in epoca
romana. L’esistenza della chiesa è attestata da due donazioni, una del 1042 e
l’altra del 1046. Il convento annesso fu abbandonato nel 1270, mentre la chiesa
continuava ad essere aperta al culto e, nel 1595, fu assegnata alla mensa
vescovile di Aquino.
Oggi la Chiesa di San Vito è in abbandono, ma
meriterebbe di essere bonificata e restaurata, se non altro come deposito del
materiale archeologico sparso nella zona. |