La maggior gloria di Rocca d’Arce fu nella sua
fortezza, l’Arx Volscorum, o Arx Fregellana, e poi nel Castello
medievale, punto strategico di primaria importanza, sulla linea di confine e di
accesso al Mezzogiorno. In realtà, a proposito del Castello, si è trattato di
una gloria cui non tutto il popolo partecipava e contribuiva direttamente.
Una gloria riservata agli eserciti, ai condottieri,
ai castellani, se mai partecipata solo di riflesso con il popolo, che per lo più
ne subiva gli aspetti negativi, come gli assedi, i rifornimenti, le
devastazioni, le angherie, i tributi. Il sistema economico del vassallaggio, che
vedeva ben distinti e lontani tra di loro ricchi e poveri, padroni e servi,
possidenti e posseduti, non era, finito nemmeno con le leggi eversive dei
privilegi feudali di Napoleone, nel 1806; non era finito nemmeno con le leggi
dello Stato Unitario; non era finito nemmeno dopo la prima e seconda guerra
mondiale. Ancora nell’ultimo dopoguerra, negli anni Quaranta, negli anni
Cinquanta, a Rocca d’Arce c’erano ben distinti ricchi e poveri, padroni e servi,
signori proprietari terrieri e contadini coloni, servi della gleba. Il divario
era evidente. Pochi i “signori”, residenti nei palazzi baronali del Centro, in
tutto quattro o cinque famiglie. “Fuori”, cioè in campagna, viveva oltre il
novanta per cento della mano d’opera contadina, con i pochi “guardiani”, forse
cinque o sei, che avevano il compito di curare gli interessi del “padrone”,
badando alla stima e alla sorveglianza del raccolto.
Si racconta un fatto, divenuto aneddoto, a Rocca
d’Arce, ironico e significativo. Gino era un colono di Don Federico; nella sua
casupola, in cima al “Morrone”, aveva molte bocche da sfamare e poca, troppo
poca farina che il “padrone” gli assegnava. Perciò aveva pensato bene di sottrarre,
al tempo del raccolto, qualche tomolo di grano dalla quota, che era la più
grossa, spettante al padrone. Così, una mattina, di buon’ora, coll’asinello,
Gino si recò al mulino, alla Murata di Arce, per macinare quel poco prezioso
grano. I signori, di solito, dormono fino a tarda mattinata! Ma quel giorno Don
Federico passò presto al mulino e, visto il colono che era venuto a macinare,
spiritosamente apostrofò Gino: “Com’è, Gì, pure tu vieni al mulino?”. E Gino, di
rimando, con prontezza e altrettanto spirito: “Perché, don Federì, a vossignoria
te lo mangi a vachera il grano?”. “Vachera” sta per chicchi.
Caratteristica della socio-cultura di Rocca d’Arce è
stato l’artigianato, espresso totalmente nella produzione di calzature. I
calzolai di Rocca d’Arce erano concentrati tutti nel Capoluogo. C’erano solo un
paio di falegnami, un paio di bottai, un paio di sarti, per soddisfare le
richieste dell’intero paese. Mentre i calzolai producevano per una larga
clientela esterna, estesa a tutta la provincia. L’artigianato al femminile
contava forse una sarta e una fornaia. Percorrere le strade del Centro, fino
agli anni Cinquanta, era una esperienza unica: da una parte all’altra si sentiva
il caratteristico battere del martello del calzolaio; si avvertiva il singolare
odore di pece occorrente ad incordare lo spago per cucire, con la lesina veloce,
le tomaie alle suole; si vedeva il deschetto - gliu bancòzze - attorniato da
apprendisti ed operai intenti chi a martellare, chi a tirare lo spago con le
braccia che si aprivano e si chiudevano a ritmo sincopato, chi ad immergere le
suole nell’acqua sempre nera. I calzolai costituivano una classe sociale
intermedia, tra i contadini e i signori”. Sono stati i primi del popolino a
poter disporre di moneta, con i conseguenti benefici. Erano quelli che si
potevano permettere di comprare un vestito, erano quelli che per primi avevano
dismesso l’uso delle cioce. Due, tre volte la settimana andavano a “fare i
mercati” nei centri maggiori della Provincia, portando a vendere le loro scarpe,
di buona fattura, il venerdì ad Arce, il sabato a Ceprano e Cassino, il giovedì
a Sora e a Frosinone.
La vita agricola e artigianale era piena di stenti e
di sacrifici, per soddisfare i bisogni primari del vivere quotidiano, senza
sogni e senza ambizioni da poter esprimere. In casa non c’era l’acqua, non
c’erano i servizi igienici, non c’era la luce elettrica. Si usava il focolare e
la “fornacella” per cucinare. L’acqua, per bere e per gli usi domestici
essenziali, si andava a prendere alla fontana, percorrendo anche più di qualche
chilometro a piedi, con la “cannata” o, solo chi disponeva di un animale da
soma, con i barili. In ogni casa troneggiava, fragile e preziosa, la “cannata”,
col becco avaro a dissetare, collocata nell’apposita nicchia, sempre pronta per
essere portata in capo, sulla “spara”, all’Abballe, all’Ammonte, a Canale, a
Santa Lucia, alla Peschèra, alla Fontana di San Bernardo, dove, con l’acqua, si
attingevano le ultime notizie della cronaca paesana. Il primo acquedotto, di
Arce - Rocca d’Arce, fu fatto nel 1934, anno XII dell’era fascista, ma serviva
solo le pochissime fontane pubbliche, prima di passare alle rare utenze private,
a cominciare da quelle dei “signori”. La luce elettrica fu installata prima al
Capoluogo e poi, nel dopoguerra, in Campagna.
La rivoluzione socio-culturale ed economica
più radicale e coinvolgente Rocca d’Arce l’ha operata intorno agli anni
Sessanta, con la vera e reale rottura dello schema feudale e con la coraggiosa
apertura verso l’economia industriale. A cominciare questa nuova fase hanno
contribuito lo spirito innovativo e l’iniziativa dei calzolai e dei pochi
commercianti, sganciati dal sistema del vassallaggio medievale. E poi è stato
determinante il crollo dell’economia agricola, per cui nemmeno i più grandi
proprietari terrieri sono riusciti a ricavare dall’agricoltura un’indipendenza
economica. Un solo proprietario terriero è riuscito a creare un’apprezzabile
azienda agricola. I Rocchigiani, negli anni Sessanta, si sono dati totalmente
agli impieghi nei vari settori della pubblica Amministrazione e all’occupazione
nelle varie fabbriche piovute in Ciociaria, a cominciare dalla FIAT. In ogni
famiglia è entrato almeno uno stipendio o una pensione, permettendo
l’inserimento degli abitanti della Rocca nel flusso della generalizzata economia
industriale, in cui le parole come “padrone”, “colono”, “parzenacolo’, “cafone’,
vossignoria, sono un lontano ricordo.
Oggi Rocca dArce è un paese che conserva con
orgoglio le sue gloriose storiche memorie, che è consapevole della sua dignità
socio-culturale, che ha le risorse per progettare il suo futuro giocando ruoli
non subordinati o subalterni ma di responsabilità e compartecipazione. Non ci
sono soltanto aride rocce, oggi, a Rocca dArce, ma ci sono anche vedute
panoramiche incantevoli sull’amena Valle del Liri, ci sono ammirevoli scorci
paesistici, sprazzi di verde e alture ossigenate, ma ci sono soprattutto
intelligenza e buona volontà. |