È difficile per il medioevo stabilire
una chiara differenza fra le rapine portate a termine dai ladri di
strada e quelle compiute dai nobilotti locali e dai tanti milites,
che opprimevano le popolazioni con arbitri e soprusi di ogni genere.
Un brigantaggio dagli aspetti più
definiti cominciò a diffondersi dal secolo XIII e sin da quel
periodo un elemento importante fu costituito dalla presenza di
numerosi “banditi” ed “esuli”. Nelle città, in quell’epoca si
ricorreva facilmente al “bando” dei criminali (ma anche degli
avversari politici o semplicemente di persone particolarmente
agiate), perché tale provvedimento permetteva di sequestrare i loro
patrimoni. Queste persone, una volta estromesse dal loro paese, per
sopravvivere in genere non avevano alternative a quella di aggredire
mercanti e viaggiatori, riunendosi in gruppi più o meno numerosi e
agguerriti. Nella seconda metà del XIV secolo, nei paesi del
Cassinate, imperversarono Jacopo Papone da Pignataro e Simeone da
San Germano, che con vessazioni e ruberie perseguitarono le
popolazioni locali.
E nel secolo XVI, tuttavia, che il
fenomeno del brigantaggio si manifesta su larga scala. Nel 1525 fu
ucciso dai fuoriusciti di Alvito il Capitano di Giustizia di Atina e
nel 1566 la stessa sorte tocca va al Governatore di questa città. In
quel periodo l’atinate Pannono si era messo a capo dei delinquenti
di Alvito e costringeva le persone più ricche della Val Comino a
pagargli forti tangenti; in seguito ad una carestia, le file della
sua banda si ingrossarono notevolmente. Dopo un inutile tentativo
contro Pannono dei napoletano Giovanni Pietro Gagliardo, inviato dai
Governo centrale, subentrò nella repressione Marco Antonio Fata, che
agì nella zona con estrema durezza, facendo uccidere o condannare
alle galere, sulle triremi regie, sia i banditi che i loro
favoreggiatori. Molti di essi furono “squartati, gettati nei
precipizi con una pietra al collo e tormentati pubblicamente con
supplizi”.
Le grosse bande nei Lazio meridionale e
in Abruzzo erano formate in gran parte, oltreché da fuoriusciti, da
pastori, che spesso avevano iniziato la loro carriera criminale con
furti di bestiame, e da contadini ridotti alla fame.
I pastori/briganti conoscevano bene i
territori in cui operavano; potevano perciò facilmente nascondersi
fra i monti dopo le loro incursioni e rifugiarsi nelle grotte, che
offrivano un buon riparo. Vicino Picinisco, in Val Canari, diverse
grotte, che formano un piccolo villaggio cavernicolo, mostrano di
essere state abitate negli ultimi secoli. I pastori erano, inoltre,
molto resistenti ed abituati, per le transumanze, ai lunghi
tragitti. Le bande avevano quindi una grande mobilità e, spostandosi
frequentemente, divenivano quasi imprendibili. Sulle alture di Colle
San Magno, ugualmente trovarono comodo rifugio vari briganti (tra
cui Fuoco, Guerra, ecc.). La zona pedemontana, tra S. Elia, Cervaro
e San Vittore, fu molto frequentata specialmente da Fuoco e dai suoi
compagni. Dopo le repressioni di Antonio Fata, alcuni banditi si
rifugiarono in Abruzzo, presso Marco Sciarra il Sannita,
soprannominato il re della Campania e destinato ben presto a
divenire, nell’ultimo ventennio del secolo, un gravissimo pericolo
per la Vai Comino ed il Sorano. Costui aveva con sé un piccolo
esercito di seicento briganti, a piedi e a cavallo, e con questo
terrorizzava non solo l’Abruzzo, ma anche la Puglia e le Marche.
Presso di lui affluivano i malcontenti, i perseguitati e gli
affamati ed aveva fama di spogliare i ricchi e di distribuire ai
poveri. Già controllava una vasta zona fra Vasto e Lucera e si
diceva avesse intenzione di assalire la stessa Napoli e inutilmente
contro di lui operava no 4.000 cavalieri e fanti comandati da Carlo
Spinelli.
Due banditi che erano con Marco Sciarra,
uno di San Donato e l’altro di Gallinaro, lo convinsero a scendere
nella Valle di Comino, con il miraggio di fruttuosi saccheggi.
Quando la notizia si diffuse nella Valle, dapprima si ritenne
impossibile che Sciarra potesse addentrarsi in un territorio pieno
di città fortificate, anche perché pochi soldati avrebbero potuto
impedirgli la ritirata occupando i diversi passi, ma presto giunse
la notizia che la sua banda era giunta già a Cardito.
Se avesse in quel momento assalito
Atina, l’avrebbe presa facilmente, perché essa non era ancora pronta
alla difesa, ma Io Sciarra preferì assalire il paese di Settefrati,
saccheggiandolo e impadronendosi di circa 10.000 monete d’oro,
mentre gli esuli potevano compiere le loro vendette. Fu poi la volta
di Gailinaro, che fu dato alle fiamme. I briganti puntarono quindi
su Santa Maria in Campo, ma allora gli si fecero incontro gli esuli
alvitani, che per amor patrio lo scongiurarono di allontanarsi dalla
città. Sciarra si diresse allora verso La Posta e da qui, nella
Conca Sorana, verso Isola del Liri, i cui abitanti si consideravano
sicuri, perché la loro rocca era stata da poco ottimamente
fortificata da Giacomo Boncompagni. Furono perciò presi di sorpresa
e gli assalitori stavano quasi per superare il ponte ed entrare in
città, ma poi furono respinti dal fuoco degli archibugi.
Mentre l’esercito di Marco Sciarra si
ritirava, nella pianura di Sora fu attaccato da un esercito di 500
soldati, che provenivano dalla Val Roveto ed erano comandati dal
prefetto regio Angelo Pansa, ma questi furono vinti e respinti nella
pianura sorana. Sciarra allora, passando per Carnello, fece tagliare
alle sue spalle il ponte Tapino, perché i soldati non potessero
seguirlo, e poi, passando per Alvito, giunse a San Donato e da qui
ritornò in Abruzzo.
A parte il pericolo corso con Sciarra,
il problema dei fuoriusciti nella zona diveniva sempre più grave ed
uno dei capi dei banditi, Bernardino Colella, in questo periodo
commise molti omicidi ed aggressioni. Vi fu allora l’intervento
dell’arciprete di Castro Pignano, mal visto da molti perché si
dimostrò uno spietato persecutore anche dei partigiani degli esuli.
La repressione del banditismo diventava comunque sempre più difficile,
sino a quando il prefetto napoletano Carlo Loffredo, con il consenso
del vicerè, concedendo salvacondotti e indulti, convinse la maggior
parte dei briganti e degli esuli ad arruolarsi per la guerra delle
Fiandre, facendoli partire per Mantova e per Ferrara. Questo
dimostra quanta scarsa differenza ci fosse allora fra i briganti ed
i soldati! Per evitare la ripresa del fenomeno del brigantaggio, si
creavano poi nei diversi centri milizie cittadine.
In occasione delle periodiche gravi
carestie, che colpivano la popolazione e per le quali facilmente si
moriva di fame, gli esponenti delle classi più agiate cercarono di
alleviare le sofferenze delle classi più umili, un po’ per senso di
responsabilità, ma soprattutto per evitare eccessivi squilibri
sociali, che avrebbero inevitabilmente ingrossato le file del
brigantaggio.
Nel 1647, una masnada di 6.000 uomini,
comandata da Giuseppe Rezze di Itri, collegato con la banda di
Domenico Colessa, detto Papone, approfittando dei disordini
provocati a Napoli da Masaniello, stava saccheggiando i paesi e
sotto ponendo ad estorsioni i possidenti. Giacomo Valente di Sora
reclutò allora molta gente armata e lo inseguì affrontando e
sgominando i briganti.
Alle porte di un mondo sostanzialmente
statico nel suo assetto feudale, bussavano intanto le novità della
rivoluzione francese. In previsione di un attacco delle truppe
francesi, lungo la linea di confine con lo Stato Pontificio, furono
schierati 51.000 uomini, dei quali 11.347 fra Sora, Arpino, Isola e
in Val Comino. La diffusione di un’epidemia di colera fra militari e
civili contribuì però ad esasperare lo stato d’animo dei soldati,
che numerosi disertarono dandosi alla macchia. Per questo motivo il
Comandante di Isola fu costretto, con una sua ordinanza del 27
aprile 1796, a far chiudere dalle 19 alle sette di mattina la “Porta
Guardiana” e a fare alzare il ponte, per evitare che i briganti
(particolarmente attivi in una zona di confine, dove era possibile
esercitare il contrabbando) imperversassero in città.
Alla fine di luglio 1798, il generale
Championnet sconfisse le truppe napoletane e l’alà sinistra
dell’esercito, passando per Veroli e Castelliri, giunse a Sora,
mentre dappertutto si stabilivano amministrazioni municipali
provvisorie. Le masse popolari erano però in fermento, manovrate da
una parte dalla classe conservatrice e dall’altra intimorite e
offese dal comportamento degli occupanti, che non rispettavano le
istituzioni religiose e si abbandonavano facilmente a furti e
rapine. Seguì un proclama di Ferdinando IV che incitava i suoi
sudditi alla rivolta e allora contadini, artigiani, ma anche molti
criminali ricercati per diversi reati, si armarono in ogni modo e si
riunirono nelle piazze di Sora, Isola e Cassino, eccitati dai
discorsi infuocati di preti, frati e capipopolo.
Nel gennaio 1799, sotto la guida del
brigante Gaetano Mammone, Sora e Isola insorsero, scacciando gli
invasori. Mammone, un molinaro sorano, di famiglia originaria di
Alatri, capo di una numerosa banda, è stato descritto da autori
stranieri e italiani, fra i quali Vincenzo Cuoco e Benedetto Croce,
come un personaggio feroce e sanguinano, al quale si attribuivano
persino abitudini antropofaghe. Lo stesso uomo veniva definito dal
Re Ferdinando e da sua moglie come “nostro buon amico e generale, il
vero sostegno del Trono” e proprio dal Re fu insignito di
decorazioni.
L’occupazione di Mammone si estese sino
a Sangermano (odierna Cassino), costituendo una specie di Vandea del
sud; questo per Sora ed Isola fu un periodo di disordine e di
terrore, di cui certamente fecero le spese le persone più
illuminate, accusate di giacobinismo. Certamente, se l’azione di
Gaetano Mammone e della sua banda fu efficace verso i Francesi,
questo lo si deve soprattutto al fatto che i briganti erano
sostanzialmente appoggiati dal popolo e si atteggiavano spesso,
anche se impropriamente, a difensori dei poveri di fronte alle
prepotenze della classe agiata.
I Francesi reagirono contro i briganti
con diverse incursioni su Castelluccio (=Castelliri) ed Isola,
concluse con scontri armati, sino a quando la situazione divenne
critica per i difensori, cosicché il comandante di Isola, Antonio
Cipriani, decise di aprire le porte agli attaccanti. Gaetano Mammone
allora, fortemente irritato, alla guida di Sorani ed Arpinati,
piombò su Isola, mettendo in fuga la guarnigione polacca e lasciando
nella cittadina un presidio comandato dal suo luogotenente Valentino
Alonzi.
Nel 1799, durante la seconda coalizione,
l’esercito francese di Moreau si trovò in difficoltà per l’offensiva
delle forze russe ed austriache. Gran parte delle truppe francesi
stanziate nel sud si avviarono quindi in soccorso di Moreau. Una
colonna di soldati francesi, sotto il comando dei generali Watrin ed
Olivier, passando per Sangermano e Roccasecca, dopo aver compiuto
eccidi ed abusi di ogni genere ad Arce, si diresse verso il Sorano.
Era questa la zona controllata dai briganti e quando 13.000 francesi
giunsero ad Isola, incapparono in una resistenza inattesa, che li
rese furiosi. Gli assalitori, entrati in città, si abbandonarono ad
un indiscriminato massacro. Furono uccise ben 600 persone, senza
distinzioni di sesso e di età, di cui 350 nella chiesa di San
Lorenzo. Iniziò poi un orribile e violento saccheggio, che durò per
ben due giorni, mentre si dava fuoco alle abitazioni del centro e
del contado.
Nel giugno 1799 si ristabilì il Governo
borbonico ed i Francesi abbandonarono le regioni che avevano in
precedenza occupato. Gaetano Mammone però continuava a
spadroneggiare nella media valle del Liri ed i Sorani, non sopportando
più la terribile situazione in cui si trovavano, lo denunciarono al
Re. Mammone venne allora catturato e imprigionato e morì nel carcere
della Vicaria di Napoli nel gennaio 1802.
Nel 1800, Napoleone scese in Italia per
la seconda volta. Dopo aver sconfitto gli Austriaci, affidò il
compito di invadere il Regno Borbonico al maresciallo Massena.
Nuovamente allora le popolazioni si prepararono alla resistenza e i
briganti si riorganizzarono.
In Terra di Lavoro, in quel periodo,
sempre nelle zone di confine, spadroneggiava un altro famoso
bandito, Michele Pezza, nato ad Itri e soprannominato “Fra’
Diavolo”, per la capacità di sfuggire, attraverso continue
avventure, alle accanite ricerche delle Autorità, che su di lui
avevano stabilito una taglia. Considerato dal popolino come un capo
audace e valoroso, con i suoi numerosi accoliti assaliva soldati,
isolati o in piccoli gruppi, i corrieri e i viaggiatori, sempre
uccidendo spietatamente le sue vittime e interrompendo di fatto il
“cammino” tra Roma e Napoli.
Nel settembre 1806, egli, dopo aver
spinto gli abitanti di Alvito e di Atina contro i Francesi,
inseguito dalle truppe di Forestier, giunse a Sora in vesti di
generale borbonico. Qui si asserragliò con un migliaio di armati in
un’ottima posizione militare. La città era infatti difesa dal fiume
Liri e dal castello di San Casto. Fra’ Diavolo fece murare “le porte
principali della città, tagliati i ponti di passaggio sul Liri,
eccetto quelli di Napoli e di San Lorenzo”. Si schierarono intorno
alla città oltre quattromila soldati francesi. Seguì un accanito
combattimento, con l’intervento dell’artiglieria borbonica, finito
con la conquista di Sora da parte dei Francesi, mentre Fra’ Diavolo,
naturalmente, riusciva a rifugiarsi sulle vicine montagne. Si tentò
la difesa anche ad Isola, ma gli abitanti dovettero presto cedere ed
iniziò così una più stabile occupazione francese. Il nuovo Governo,
che durerà sino al 1815, con efficaci operazioni di polizia,
prolungatesi per due anni, riuscì a fiaccare le residue resistenze
dei briganti.
Aldilà della frontiera pontificia, nei
primi anni della Restaurazione, si verificò una clamorosa ripresa
del brigantaggio. Nel 1817 la banda del prossedano Giuseppe De
Cesaris sequestrò il Principe Petralla di Napoli e tentò di
sequestrare Luciano Bonaparte nella sua villa. Nel 1821 la banda di
Alessandro Massaroni di Vallecorsa catturò tutti i membri del
Seminario di Terracina, mentre briganti ciociari assaltarono due
paesi in Sabina. Nello stesso anno e in quello successivo, la banda
di Antonio Gasbarrone di Sonnino catturò prima sei religiosi
camaldolesi a Frascati e poi un colonnello austriaco, il Conte di
Condenhaven, mentre era in viaggio per Napoli.
Nel periodo in cui si completava l’unità
d’Italia, in diverse regioni del vecchio Regno del Sud, si
organizzò, a favore del deposto re Francesco Il, un’aspra
resistenza, che almeno in parte era alimentata dai briganti.
Nella media Valle del Liri, il sorano
Luigi Alonzi, soprannominato “Chiavone”, ex guardia-boschi nato il
19 giugno 1825 in contrada Selva, si pose a capo di una banda di
guerriglieri, che in alcuni momenti giunse ad avere oltre mille adepti.
Egli indossava la divisa di generale di Francesco Il e, in
riconoscimento del suo operato, gli era stato attribuito il titolo
di “Cavaliere e Comandante delle armi borboniche nel Sorano”.
Fra le sue “gesta”, si ricordano lo
scontro vittorioso presso Sora contro la Guardia Nazionale di
Casalvieri, l’occupazione di diversi centri della Val Roveto, di
Isoletta, di Arce, di Bauco (Boville Ernica), con il successivo
combattimento contro i Piemontesi, il saccheggio di Civita d’Antino,
di Castelliri e di San Giovanni Incarico.
I soldati di Francesco II, e con questi
anche i briganti di Chiavone, trovavano nei loro spostamenti un
comodo rifugio presso i conventi di confine e soprattutto a Casamari,
ma non si sa sino a qual punto i monaci gradissero la loro
pericolosa presenza. L’Alonzi godeva di una grande influenza nei
paesi della media Valle del Liri e poteva contare sulle simpatie e
sull’appoggio di chi era legato al mondo clericale e reazionario.
Fra gli altri, il geniale pittore Filippo Balbi di Alatri, monaco di
Trisulti, lo invitò spesso a pranzo nella Certosa e gli fece un
ritratto ad olio.
Nel 1861 fu presa Gaeta, l’ultimo
baluardo borbonico; l’anno seguente, il 28 giugno, l’Alonzi fu
fucilato, presso la Certosa di Trisulti. La sua morte chiudeva nella
zona un’intera epoca.
Ancora per alcuni anni vi furono gli
ultimi colpi di coda del brigantaggio, con personaggi come Domenico
Fuoco, anche lui ben accolto nei conventi di Casamari e di Scifelli,
Guerra, Cedrone e Francesco Francesconi (nato a Sora nel 1841).
Quest’ultimo ebbe una vita molto avventurosa. Fu dapprima militare
nell’esercito borbonico, combattendo a Calatafimi contro i
Garibaldini, poi entrò nella banda di Chiavone: nel 1870 partecipò
alla difesa di Roma come soldato del Papa; dal 1873 al 1884 fu
rinchiuso nel carcere di Pianosa per aver ferito con una pugnalata
una guardia nazionale a Sora; infine, all’inizio del secolo, lo
ritroviamo a Casamari come “guardiano” presso la grangia
dell’Antera, di proprietà dei monaci. |